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Noi giriam per questo contorno...


Il filo dei riti e i bambini di montagna



Non si tratta di insegnare le tradizioni ai bambini; da loro c’è da imparare, perché comprendono e vivono meglio di noi il significato dei suoni cupi d’oltretomba de ‘lascrasolas’ del Venerdì Santo, l’aspirazione profonda al rinascere della natura espressa attraverso i cappelli fioriti delle maschere, la suggestione del falò acceso in comunità e del cammino delle rogazioni quando si mettono i piedi là dove li hanno messi gli antenati, il senso del dono povero richiesto e offerto casa per casa. I bambini si godono la modernità, eppure sono anche in grado di restituirci il senso profondo della tradizione: quando la indossano, sono maestri nel popolare di ombre cariche di significato spazi e tempi entro i quali noi non riusciamo a scorgere più nulla.

 

Gian Paolo Gri

 

Suoni

Di Gian Paolo Gri, tratto da ‘Noi giriam per questo contorno... Il filo dei riti e i bambini di montagna’.


Il tradimento più grande che i musei etnografici possano fare alla tradizione è il silenzio delle sale. La vita di paese è anche rumore e suono, voce, canto, musica; ma anche schiamazzo organizzato, baccano ostinato, strazio per le orecchie di alcuni e godimento per altri. Per questo Ulderica Da Pozzo ha scelto di accompagnare le fotografie con un video che rimandasse almeno in parte all’ambiente sonoro che rappresenta parte costitutiva dei rituali e dei loro simbolismi.


Simbolismi spesso in contrapposizione. Campane, campanacci e campanelli da una parte, ad esempio, e cràciulas e batecui e sdrondenadas dall’altra; musica e contromusica: segni privilegiati dell’identità comunitaria, della ‘mandria’ dei mascherati, della canaia, della mularìa e di ogni altra forma di associazione, anche di bambini e bambine che vestono alternativamente da chierichetti e da mascherine e brandiscono con la stessa soddisfazione e lo stesso vigore crâsolas il Venerdì, campanelli il Sabato Santo, sampogns per carnevale.


Campane e contro-campane, musica e contro-musica, nella loro doppia dimensione religiosa e profana, condividono la funzione del comunicare messaggi a distanza e del comunicarli in maniera comunitaria. Spetta a loro dare significato al tempo, indicandone il mutare di qualità: tempo del lavoro da scandire, tempo della festa da annunciare ed esaltare (della festa ordinaria e di quella straordinaria, dei riti a cadenza e di quelli ‘della prima’ o ‘dell’unica volta’), tempo della sventura, del lutto, del pericolo, dell’irrisione, della disapprovazione, del rovesciamento.


Mi colpiscono le immagini che mostrano la serietà con cui bambini e bambine gestiscono il ruolo comunitario di scrasoladôrs e come tali pattugliano le strade. Brandiscono strumenti che sono la lingua delle ‘tenebre’ (per usare la definizione dell’Ufficio liturgico della Settimana Santa), la lingua del mondo che sta oltre il confine del domestico e del consueto. È come se i più piccoli sapessero cogliere istintivamente questa dimensione oscura. Che sia affidato a loro il compito di incidere nel cuore profondo della loro comunità il senso del mutare del paesaggio liturgico, con quel che significa, attraverso il mutare del paesaggio sonoro, mi pare decisone sacrosanta e da tutelare. Sono meno sordi di noi.


Come adulti, stiamo perdendo o abbiamo perduto il senso della cesura radicale che segnava, nella tradizione, i giorni della Settimana Santa e manteneva vivo il senso dell’incombere pericoloso, a rischio di sovvertire l’ordine della domesticità consueta, dell’oltremondo infernale in cui Cristo era sceso. Mi pare grande cosa che questo livello di significati ci venga restituito da bambini di montagna che continuano con tenacia a girare la manovella del loro strumento gracchiante, decisi a difenderlo per com’era in passato e a non cederlo proprio del tutto ai tifosi degli stadi e dei palasport.