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Fuochi
Il termine e il concetto di ‘fuoco’ hanno svolto una funzione fondamentale, per secoli, anche in Carnia, riferiti alle cellule fondamentali e vive delle strutture comunitarie; cellule concrete,da vedere e da annusare: «fuochi fumanti» dicono le vecchie carte di vicinia e gli statuti. Per secoli la funzione di trasformare i diversi ‘fuochi’ domestici in aggregato comunitario, con la capacità di tenere in equilibrio esigenze di individualità delle famiglie e inevitabili contrapposizioni e conflitti, con i bisogni della solidarietà collettiva e dello scambio di persone, beni e servizi, è stato affidato – come forma di rappresentazione simbolica e nello stesso tempo di costruzione della comunità – proprio al rituale dei ‘fuochi di tutti’ che i giovani accendevano anche in Carnia sul pruc, sul plan, sul cretdascidulas. Un paese non è, si fa. I fuochi comunitari hanno ancora molto da costruire. E dunque, «che lascidulasasvàdin: impiàdas, tràtas, batiàdas, biélas, a lunc, lontan… Vìvule!».
Gian Paolo Gri |
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‘La cidula par ducj i sants e i muarts’ Di Ulderica da Pozzo, tratto da ‘Fuochi. Gioventù e rituali in alta Carnia’ .
Pesmolêt, Uerpa e Vâs: piccoli borghi, poche case sparse abitate anche da pastori, prati falciati e mucche al pascolo sopra Vinaio. Luoghi e persone che avevo fotografato per il libro Malghe e malgari. Quell’anno i ragazzi mi hanno invitata a jodi a tirâlascidules la notte del 31 ottobre, vigilia dei Santi e dei morti. Sono salita con la neve caduta abbondante e le stelle nel cielo e ho ritrovato la mia infanzia. In casa di Wanda, piccola ma piena di gente, nella cucina con lo spolert che bruciava legna ho sentito di nuovo il calore e l’unione che c’era nelle nostre case prima che arrivasse la televisione; al di là di una porta e di un piccolo corridoio c’erano la mucca e le pecore, in una vicinanza da presepio. Su un piccolo pianoro, sopra uno strapiombo nero, il falò era già acceso. C’era un’orchestra con la fisarmonica, il violino e il liròn, lascidulasbruciavano nel fuoco e tanti potenti razzi, appoggiati sulla neve, erano pronti per partire. E poi il primo lancio, con quella strofa dal suono antico: i lunghi rami ardenti venivano fatti ruotare e lanciati nel vuoto, partivano i razzi e i tiri di schioppo con il fucile, bum bam. Era come un cerchio rumoroso e potente, i suoni si mescolavano in un andare e venire che saliva dal profondo nero della memoria. Ad un certo punto però qualcuno esclama: «Cidìnscumò!». E nel silenzio che gela il fiato sale una voce che intona la rima della cidula: «Par ducj i sants e i muarts... e dut a si ferma, il sora e il sot a si tocja, e i vîfs e i muarts a si cjala». Tutto dura solo un momento, e già si canta. Ormai il ‘sopra’ e il ‘sotto’ si sono incontrati, e per un attimo si sono uniti. Quando il fuoco si spegne e lascia salire il fumo, ci si incammina nella neve verso le case e cresce allora l’allegria malinconica che c’è nel lasciarsi.
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