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Luci a nordest


Immagini e parole dal Friuli Venezia Giulia



Questo libro non è un’oleografia. Ne ho guardato le foto e ho avuto l’impressione che fossero il bottino dell’esplorazione in uno spazio sconfinato. C’era di tutto: lagune, montagne, laghi, pianure, faraglioni sul mare, fiumi serpentiformi, pinnacoli battuti dal vento, fari solitari. Il patrimonio di una grande nazione, se non di un continente. Per questo mi sono commosso pensando che quelle immagini erano state raccolte in una sola regione, e per giunta una delle più piccole d’Italia. Riguardo le immagini e dico: viviamo in un gran posto. Non c’è paragone col resto del nord Italia. Pare impossibile che, nonostante questo, la politica ci abbia reso timidi nel costruire un patriottismo regionale simile a quello veneto o a quello lombardo, come se l’alleanza fra le due parti della regione ‘col trattino’ fosse cosa effimera destinata a dissolversi al primo colpo di vento.

 

Paolo Rumiz

 

Di Paolo Rumiz, tratto da ‘Luci a nordest’.


Ero solo in macchina e andavo a San Daniele da amici cari, immigrati croati trapiantati su quelle colline. Da quelle parti erano nati i miei nonni paterni e io mi muovevo per le strade minori della pedemontana come nei rami del mio albero genealogico. Mio padre era morto da tanto, a soli 63 anni di età; Piero si chiamava, ed era figlio di Domenico Rumiz e Serena Peressini, nati rispettivamente a Magnano in Riviera e, appunto, a San Daniele.
‘Papà’, dissi tra me, come se avessi ancora accanto quell’ufficiale-gentiluomo che mi aveva insegnato l’amore per la montagna e la purezza della natura. Lui c’era, da qualche parte, e a un tratto ebbi la certezza di potergli telefonare, la sicurezza precisa che lui avrebbe risposto, se solo avessi avuto il numero col prefisso giusto. Poi pensai ai giochi del destino. Nonno Domenico era morto emigrante a Buenos Aires, a meno di cinquant’anni, di crepacuore, per il fallimento della banca doveaveva depositato i suoi risparmi. Era stato un grande imprenditore, aveva costruito il primo grattacielo d’Argentina e fatto fortuna. Lo avevano imbarcato da solo, a otto anni, su una nave in partenza da Le Havre.
Anche il padre dei miei amici croati – il vecchio Dukcevic – era morto lontano da casa, ma in Friuli, nelle stesse terre di mio nonno, dopo aver messo in piedi un’industria alimentare. Tito gli aveva sequestrato tutti i beni e lui aveva dovuto ricominciare da zero. Dopo una vita di lotta aveva scelto di farsi seppellire a San Daniele, nelle terre dei miei nonni, perché vi aveva trovato un paesaggio simile a quello della sua Slavonia. Entrambi i vecchi erano morti lontano da casa, entrambi avevano fatto fortuna dal nulla. E il croato dormiva all’ombra dei cipressi dove avrebbe voluto riposare mio nonno.